Il parlare male di una persona sui social network, anche senza nominarla direttamente, ma rendendola identificabile, comporta il divenire passibile di condanna per diffamazione, anche se a leggere tale riferimento, è una cerchia limitata d’iscritti. A deciderlo è la Suprema Corte di Cassazione con sentenza 16712 del 22 gennaio 2014, depositata il 16 aprile scorso, che ha annullato l’assoluzione accordata a un maresciallo della Guardia di Finanza di San Miniato, nel Pisano, colpevole di aver offeso la reputazione di un collega esprimendo giudizi lesivi, senza identificarlo sul social network.
Il finanziere aveva scritto di essere stato “attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di un collega raccomandato e leccaculo”, aggiungendo quindi un’espressione volgare riferita alla moglie di quest’ultimo.
Per la frase incriminata, che aveva offeso la reputazione del maresciallo designato al posto suo al comando della compagnia, l’imputato era stato condannato dal tribunale militare di Roma a tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata.
Nel ricorso contro l’assoluzione, il procuratore generale militare ha evidenziato come, al contrario, la pubblicazione su Facebook abbia determinato la conoscenza delle frasi offensive da parte di (cit.) “soggetti indeterminati iscritti al social network e che chiunque, collega o conoscente dell’imputato, avrebbe potuto individuare la persona offesa” pertanto, era stato condannato dal tribunale militare di Roma a tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata.
Nel procedimento di appello era stato assolto per insussistenza del fatto poiché, la lettura di queste frasi, era possibile esclusivamente da un numero limitato di soggetti, rispetto alla generalità degli utenti del social network, non avendo l’imputato né identificato il suo successore, né la funzione di comando in cui era stato sostituito, né tantomeno dato alcun riferimento cronologico.
La prima sezione penale della Cassazione ha riconosciuto come la frase fosse (cit.) “ampiamente accessibile, essendo indicata sul cosiddetto ‘profilo’ e l’identificazione della persona offesa favorita dall’avverbio “attualmente” riferita alla funzione di comando rivestita. Tra l’altro (cit.) “il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico ma la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza anche soltanto di due persone”. Secondo gli Ermellini, “i giudici di secondo grado non hanno adeguatamente indicato le ragioni logico-giuridiche per le quali il limitato numero delle persone in grado di identificare il soggetto passivo della frase a contenuto diffamatorio, determina l’esclusione della prova della volontà, dell’imputato, di comunicare con più persone in grado di individuare il soggetto interessato”.